Summit per la democrazia: ‘attentato’ di Biden alle Nazioni Unite

Da pochi giorni il presidente statunitense Joe Biden ha annunciato di aver invitato 110 Paesi ad un summit virtuale per la democrazia, il quale avrà luogo tra il 9 e il 10 dicembre di quest’anno. Lo scopo alla base dell’iniziativa sarà quello di stabilire “un’agenda di rinnovamento democratico e fronteggiare le più gravi minacce per le nazioni” e di stimolare “impegni e iniziative su tre temi principali: difesa dall’autoritarismo, lotta alla corruzione e promozione del rispetto dei diritti umani”.

L’elenco degli invitati

Quali sono gli Stati che dovrebbero partecipare?

A figurare nella lista dei partecipanti ci sono tutti i Paesi dell’Unione Europea, eccezion fatta per l’Ungheria di Orbán, oltre, tra gli altri, a Giappone, Corea del Sud, India, Israele, Iraq, Canada, Messico e persino il Brasile dell’autoritario Bolsonaro – tra l’altro aperto sostenitore di Trump, avversario politico di Biden .

Tra gli esclusi compaiono anche Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Qatar ed Emirati Arabi Uniti – storici alleati degli USA in Medio Oriente.

Le contraddizioni

Il problema alla base della conferenza è, senza ombra di dubbio, la contraddizione interna su cui nasce: chi stabilisce quali sono i governi democratici?

Gli Stati Uniti hanno deciso di autoproclamarsi giudici, decidendo arbitrariamente chi invitare e chi no. Ecco che il vertice si trasforma ben presto in un nuovo tentativo di Washington di rendersi leader indiscusso di un corposo gruppo di Stati nella scena internazionale.

Si spiega quindi la decisione di chiamare Taiwan e non la Cina, acerrima rivale dell’amministrazione Biden. Stesso discorso vale per l’esclusione sistematica di Russia e Turchia. La contraddizione si palesa però con il già citato invito al Brasile, nazione fortemente criticata per essere gestita dall’estrema destra e, in generale, da un uomo che si può definire tutto fuorché democratico.

Appare inoltre paradossale come gli stessi USA, i quali hanno firmato ma non ratificato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, per evitare di essere messi sotto processo per crimini commessi, insistano con l’idea che vi siano lacune nella cooperazione tra Stati e si propongano di colmarle.

Tornano quindi alla mente le parole sempre attuali di Giorgio Gaber, che in “L’America” diceva: “Non c’è popolo che sia più giusto degli americani. Anche se sono costretti a fare una guerra, per cause di forza maggiore, s’intende, non la fanno mica perché conviene a loro. No! È perché ci sono ancora dei posti dove non c’è né giustizia, né libertà. E loro, eccola lì, pum! Te la portano. Sono portatori, gli americani. Sono portatori sani di democrazia. Nel senso che a loro non fa male, però te l’attaccano.  L’America è un arsenale di democrazia”.

Il rischio per le Nazioni Unite

Ancor più grave è però il danno che rischia di fare un’iniziativa di questo genere: esiste già un’istituzione fondamentale per la cooperazione internazionale e si tratta dell’Organizzazioni delle Nazioni Unite. Dopo decenni di evoluzione, scontri e accordi, sarebbe controproduttivo pregiudicarne lo status e l’importanza.

Va comunque sottolineato che, anche se si procedesse alla creazione di una nuova forma di alleanza tra Stati cosiddetti “democratici”, gli Stati Uniti non hanno, per quanto fatto con l’ONU, la credibilità di garantire un impegno stabile nel momento in cui venga messa in discussione la loro leadership. A convincere – o forse obbligare – gli altri Paesi alla partecipazione, potrebbe dunque essere quasi esclusivamente l’influenza geopolitica statunitense e un governo che ad oggi si dichiara il maggiore oppositore al predominio di Cina e Russia.

Resta quindi da capire la volontà degli altri Stati, che si trovano ora a dover compiere una scelta ed una prova di maturità: insistere per rafforzare l’ONU o cedere agli USA, seguendo inermi le volontà e gli interessi privati di Washington, confermandosi ancora una volta Stati Uniti-dipendenti.