Gli episodi di violenza e abusi di potere da parte delle forze dell’ordine non sono una novità, in Italia come nel resto del mondo. Il problema maggiore resta, però, l’identificazione dei responsabili. Nel caos generato dagli scontri tra polizia e manifestanti, in mancanza di un tratto distintivo è quasi impossibile individuare gli agenti che si sono resi protagonisti delle violenze. L’Unione Europea è quindi da tempo al lavoro per evitare l’impunità di chi commette questo genere di reati, cercando, allo stesso tempo, di prevenire un grave fenomeno in crescita. Tra le proposte più concrete vi è l’introduzione dei collar number o shoulder number. Si tratta di codici alfanumerici identificativi che andrebbero posizionati sulle divise rispettivamente all’altezza del collo e delle spalle. L’utilità di tali misure è insita nel momento in cui gli agenti devono intervenire in tuta anti-sommossa e, dunque, con il volto quasi totalmente coperto.
Nel 2012 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione utile ad esortare i Paesi a “garantire che il personale di polizia un numero identificativo“, in seguito alla crescente “preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE“. Quattro anni dopo, anche il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, tramite i Relatori speciali Maina Kiai e Christof Heyns, si è espresso in questo senso. I due rappresentanti hanno raccomandato che “i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente ed individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta con il nome o con un numero“.
Le risposte degli Stati membri sono state più che positive: in Svezia, ad esempio, dove non vige un obbligo, gli agenti delle forze dell’ordine espongono comunque nome, carta d’identità e grado sull’uniforme. In altri Paesi come Grecia e Francia, invece, i funzionari di polizia sono tenuti ad esporre il codice di riconoscimento. L’Italia è, ad oggi, insieme ad Austria, Cipro, Lussemburgo e Paesi Bassi, tra i soli cinque Stati – su ventisette dell’Unione – che non si sono ancora adeguati a tali misure.
Le violenze in Italia: il G8 di Genova, ma non solo
Paradossalmente, come spesso accade, i Paesi in cui certe norme non sono ancora previste, sono quelli a cui servirebbero con maggiore urgenza. Gli abusi di potere da parte degli agenti delle forze dell’ordine sono e sono stati molteplici in Italia, come dimostrano i clamorosi casi, passati alla storia, del G8 di Genova, di Stefano Cucchi, di Giuseppe Uva e della ‘spedizione punitiva’ avvenuta entro le mura del carcere di Santa Maria Capua a Vetere.
Durante il G8 tenutosi a Genova nel 2001, le forze dell’ordine si resero protagoniste di violenze inaudite nei confronti, in particolare, dei manifestanti no-global. Prima vittima fu Carlo Giuliani, attivista ventitreenne che, tentando di fuggire da una zona di scontro tra polizia e manifestanti, venne raggiunto al volto da un proiettile esploso dal carabiniere Mario Placanica. Nel tentativo di sfuggire alle proteste, la camionetta con a bordo Placanica passò due volte sopra il corpo di Giuliani, ormai defunto.
Sempre durante i tre giorni del G8, i Reparti mobili della polizia di Stato, supportati da alcuni battaglioni dei Carabinieri, fecero irruzione nella Scuola Diaz, momentanea sede della rete no-global Genoa Social Forum. Di 93 giornalisti e attivisti, 63 finirono in ospedale e 125 poliziotti, tra cui funzionari e dirigenti, vennero in seguito accusati. Infine, nonostante la magistratura ritenne che, in alcuni casi, fossero effettivamente avvenuti i reati contestati, non fu possibile identificare i responsabili.
La ‘mela marcia’ non cade mai lontano dall’albero
Allo stesso modo, i casi Cucchi e Uva hanno evidenziato il problema legato alle violenze e ai conseguenti tentativi di insabbiamento. Stefano Cucchi, nel 2009, fu vittima di un pestaggio da parte delle forze dell’ordine, avvenuto dopo un arresto per possesso di sostanze stupefacenti. Successivamente alla sua morte, causata proprio dalle azioni dei carabinieri in questione, ci vollero sette anni di indagini e processi, 45 udienze, 120 testimoni e decine di consulenze tecniche per arrivare alla condanna di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. I due funzionari dell’Arma devono scontare 12 anni di carcere, come confermato dalla Corte di Cassazione il 4 aprile 2022.
Simile sorte toccò a Giuseppe Uva, il quale, fermato in stato di ebbrezza nel 2008, venne poi condotto in caserma dove fu picchiato e torturato. Il quarantatreenne venne poi trasportato all’ospedale di Varese, dove morì il mattino successivo. Non esistono documenti relativi al fermo o all’arresto della vittima e i due carabinieri e i sei agenti di polizia imputati vennero assolti dalle accuse.
Un altro caso recente è stato quello inerente ai fatti del carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, il 6 aprile 2020. In seguito alle restrizioni messe in atto per la pandemia da Covid-19, la mancanza di attrezzature e mascherine e i primi contagi, scoppiò una rivolta da parte dei carcerati. In risposta, circa 200 agenti in tenuta anti-sommossa organizzarono una vera e propria ‘spedizione punitiva’ in cui picchiarono e torturarono i detenuti. Inizialmente difesi dal leader della Lega Matteo Salvini, gli agenti responsabili sono stati immortalati dalle telecamere di sorveglianza, le quali riprese hanno scansato ogni dubbio.
Ogni qual volta che avviene un misfatto del genere, la risposta di forze dell’ordine e simpatizzanti è sempre la stessa: si è trattato dell’azione di qualche ‘mela marcia‘. Eppure, la costante reiterazione – spesso su larga scala – di tali comportamenti dimostra che esiste effettivamente un problema. Se non è possibile mettere in discussione l’esistenza di agenti e funzionari che svolgono correttamente il proprio lavoro, non si può neppure negare la presenza di una grande proporzione di colpevoli. La mela non cade mai lontano dall’albero, d’altronde.
L’utilità di codici e bodycam: l’esempio USA
La prevenzione di violenze e abusi passa da alcune semplici, testate misure. Come auspicato dall’UE, l’introduzione di codici alfanumerici identificativi e bodycam è essenziale. Un esempio concreto dell’utilità di tali strumenti è rappresentato da una nazione che da sempre registra problematiche e scontri legati al comportamento della polizia: gli Stati Uniti d’America. Secondo Mapping Violence, nel 2019 le forze dell’ordine statunitensi hanno causato 1098 morti. Inoltre, secondo le ricerche, gli afroamericani hanno una probabilità tre volte maggiore di essere vittime di tali violenze. Ancora più grave sono, però, le mancate accuse e persecuzioni verso la stragrande maggioranza di agenti che hanno usato la forza e ucciso un civile.
Nonostante la gravità della situazione, l’utilizzo di strumenti quali codici identificativi e bodycam hanno più volte consentito di consegnare i colpevoli alla giustizia. Nel drammatico caso di George Floyd, divenuto un simbolo contro gli abusi di potere della polizia, i filmati ripresi dagli agenti responsabili della morte di Floyd sono stati essenziali per ricostruire i fatti e provare la colpevolezza dei poliziotti. Convinti dell’utilità delle stesse, da gennaio 2022 anche in Italia sono previste le bodycam, ma solo per un migliaio di funzionari e da tenere operative solo in certe situazioni.
La risposta dei politici italiani
Le reazioni dei protagonisti della scena politica italiana alla possibilità di introdurre strumenti e misure utili a prevenire le violenze delle forze dell’ordine sono state tra le più disparate. Nonostante Statewatch.org abbia evidenziato la presenza di un filo di violenza contro gli immigrati e i Rom tra le forze di polizia e Amnesty International abbia collegato abusi e maltrattamenti nelle carceri, parte dei politici italiani sembrano restii ad intervenire.
La Ministra degli Interni Luciana Lamorgese, chiamata a rispondere delle cariche dei poliziotti contro gli studenti scesi in piazza a manifestare per la morte del diciottenne Lorenzo Parelli, avvenuta durante l’alternanza scuola-lavoro, si è opposta. Lamorgese ha dichiarato: “Sono già in essere le telecamere sui caschi delle forze di polizia che servono a documentare le azioni proprio per la massima trasparenza e questo serva a tutti, a chi manifesta ma anche alle forze di polizia“. Niente, invece, sul fronte dei codici identificativi. Anche Giorgia Meloni, segretario di Fratelli d’Italia ha commentato che, in caso dell’introduzione del reato di tortura e di misure simili “Gli agenti non potrebbero fare il proprio lavoro“.
A dare sostegno all’introduzione degli strumenti in questione ci sono alcuni parlamentari, tra cui Giuditta Pini del Partito Democratico, Riccardo Magi di +Europa e Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, i quali avevano avanzato una proposta di legge già durante la scorsa legislatura. “Basterebbe una circolare del Ministero per un aggiornamento delle divise“, ha spiegato Pini. Invece, gran parte dei rappresentanti politici italiani sembrano perseguire una logica diametralmente opposta rispetto alle richieste dei cittadini, dell’Europa e del momento storico in atto.