Il governo cinese a Shanghai sta attraversando la crisi sanitaria più grande che abbia mai avuto dai tempi di Wuhan e, nonostante i lockdown di fine marzo, i contagi continuano a crescere raggiungendo quota 26mila domenica scorsa.
La città che conta 26 milioni di abitanti, con il lockdown ha costretto i cittadini nelle proprie case, mentre fuori la polizia pattugliava le strade e anche chi si trova fuori dall’area di isolamento ha avuto diversi problemi a reperire il cibo.
Tutto questo rientra nella ormai famosa strategia “Zero Covid” che ha permesso alla Cina di mantenere dei contagi bassi e le regole sono abbastanza semplici: appena si scopre un focolaio, anche di pochissimi casi, vengono messi lockdown parziali o totali. Nonostante nel tempo la strategia sia stata un po’ allentata, la misura draconiana guida le autorità ancora oggi, anche se in questa ondata non sembra star funzionando molto bene. Inoltre, le proteste stanno evidenziando l’insofferenza di una popolazione provata dalla stanchezza, fame e rabbia. A risentire dei lockdown anche il PIL, secondo un calcolo dell’Università cinese di Hong Kong, il Paese perderà il 3,1 per cento di PIL al mese.
Sorge spontanea la domanda sul perché queste misure così rigide e dannose anche per l’economia del Paese siano portate avanti. In parte si sospetta sia una questione di immagine mostrare di non fare marcia indietro su una strategia che sembra essersi rivelata vincente per molto tempo. Pechino ha sempre sottolineato la superiorità del proprio sistema contro il covid rispetto a quello occidentale e quello che sta succedendo a Shanghai è una catastrofe a livello di immagine.
A supporto di queste misure anche degli elementi scientifici che giustificano quello che sta succedendo: le vaccinazioni sugli anziani sono più basse perché la campagna vaccinale ha dato la precedenza alla popolazione tra i 18 e i 59 anni (controlla) e tra l’altro, il livello di immunizzazione dato dalla circolazione del virus è più basso che altrove.