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Più pensionati che lavoratori: il sistema pensionistico dell’Italia che invecchia

L’invecchiamento demografico incide sulle pensioni. Il nostro è un sistema “a ripartizione”, quindi gli attuali lavoratori, versando i contributi, finanziano l’erogazione delle attuali pensioni. Se però non c’è equilibrio tra le varie generazioni ed il numero dei pensionati supera quello dei lavoratori, il sistema non regge.

In Italia il rapporto tra la popolazione anziana e quella giovane risulta decisamente sproporzionato. Ci sono circa cinque anziani per ogni bambino e, secondo i primi dati Istat relativi al 2021, la situazione non sembra destinata a migliorare.

Chi inizia a lavorare oggi andrà in pensione a circa 71 anni

Il processo di invecchiamento della popolazione, problematica che affligge non solo lo Stato italiano, è determinato da una serie di fattori, tra cui l’aumento della speranza di vita media e il rallentamento delle nascite. Secondo i dati Eurostat, nel 2065 l’Italia conterà ben 5 milioni di persone in meno, con una percentuale di popolazione in età lavorativa che passerà dall’attuale 67% al 56%.

Le conseguenze di questa tendenza si cristallizzano proprio nel sistema previdenziale. Se il numero dei lavoratori tende a diminuire e quello degli anziani ad aumentare, l’innalzamento dell’età pensionabile risulta inevitabile. Si stima che, chi ha appena iniziato a lavorare, smetterà solamente a 71 anni: circa 9 anni in più rispetto ad oggi.

Questo valore risulta essere tra i più elevati rispetto agli altri Paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). La media si ferma, infatti, a 66 anni. Più in alto dell’Italia troviamo solo la Danimarca con un’età pari a 74 anni.

L’Italia “figura tra i sette Paesi dell’OCSE che collegano l’età pensionabile prevista per legge alla speranza di vita”. Questa scelta si traduce nella promozione dell’occupazione in età avanzata, evitando che le persone accedano alla c.d. pensioni anticipate, che prevedono assegni aventi importi molto bassi. Tuttavia, non comporta alcun miglioramento per le finanze pensionistiche.

L’invecchiamento demografico e il debito pensionistico

Come anticipato, l’equilibrio demografico tra le diverse generazioni gioca un ruolo fondamentale nella gestione del debito pensionistico. Se ad un certo numero di pensionati corrisponde un egual numero di lavoratori e se questa uguaglianza resiste ai vari cambi generazionali, il sistema a ripartizione non può che funzionare alla perfezione.

In questo modo, infatti, ogni lavoratore sa che con il versamento dei propri contributi finanzia la pensione di qualcun altro e che, una volta raggiunta l’età pensionabile, i giovani lavoratori di domani andranno poi a finanziare la sua.

Se, però, in Italia ci sono cinque anziani per ogni bambino, questo sistema è destinato a fallire e il debito pensionistico a crescere.

Per mitigare gli effetti dell’invecchiamento demografico, i vari governi dei Paesi varano continuamente riforme pensionistiche, creando spesso malumori. Pensiamo, ad esempio, alla criticatissima Riforma Fornero. Ideata proprio al fine di rendere la pensione meno accessibile e di evitare conseguenze ancora maggiori per le nuove generazioni.

In ogni caso, l’invecchiamento della popolazione non costituisce l’unica causa del costante aumento dell’età pensionabile. Con la pandemia, da un lato il numero dei disoccupati è cresciuto e dall’altro sempre più persone desiderano anticipare il più possibile il momento della pensione, utilizzando diversi sistemi, come ad esempio Quota 100.

Vecchie scelte politiche contribuiscono alle difficoltà di oggi

Infine, vecchie scelte politiche contribuiscono ad incrementare le difficoltà.

Un esempio lampante è il caso delle c.d. baby pensioni. Sistema in vigore dal 1973 al 1992 che costa tutt’oggi, allo Stato, circa 7.5 miliardi di euro l’anno.

Grazie a questa iniziativa, in Italia è stato possibile smettere di lavorare a circa 45 anni, con 20 anni di contributi per gli uomini e circa 14 anni e mezzo per le donne.

A pagare il prezzo di questa scelta, dettata all’epoca da un periodo economico particolarmente florido e da un tasso di disoccupazione decisamente basso, sono proprio le nuove generazioni. Esse sono chiamate a coprire i costi delle attuali pensioni, calcolate, tra l’altro, con il sistema retributivo.

Questo sistema prevedeva che le pensioni venissero calcolate in base all’importo delle ultime retribuzioni percepite, mentre quello attuale, detto contributivo, calcola l’ammontare della pensione in base al valore dei contributi versati.

In altre parole, a causa del vecchio sistema retributivo i giovani sono costretti a pagare un prezzo ancora più alto, tra contributi da versare salatissimi e impossibilità di smettere di lavorare prima dei 70 anni.

In risposta a tutte le criticità appena esposte, si registra un aumento delle adesioni a sistemi previdenziali privati che, pur essendo per certi versi più convenienti, comportano un altro grande rischio: sono maggiormente esposti a fallimento. Se l’ente privato cui affidiamo la contribuzione fallisce, chi pagherò la nostra (meritata) pensione?