Michela Murgia, scrittrice, critica letteraria e drammaturga, molto attiva nei temi che riguardano femminismo e patriarcato, aveva già fatto rumore col suo ultimo libro “Stai Zitta” uscito per Einaudi e rimasto in cima alle classifiche per mesi. In questi giorni riaccende i riflettori scatenando numerose critiche per il suo ultimo articolo uscito su L’Espresso in cui usa lo schwa – il simbolo della e rovesciata ə – in un articolo riferito alla politica Giorgia Meloni.
Lo schwa è un elemento fonetico che fonde le desinenze maschili e femminili rendendole neutre, il suo suono è a metà strada fra tutte le vocali esistenti ed è usato per creare un linguaggio più inclusivo eliminando le differenze di genere.
La saggista e sociolinguista Vera Gheno nei suoi ultimi libri – tra cui “Potere alle Parole” (2019, Einaudi) e “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole” (2019, Collana Saggi Pop) – la considera una possibilità per rendere la lingua italiana più inclusiva, comprendendo donne, uomini e persone non binarie. Il dibattito sul genere fluido oggi è più acceso che mai.
I commenti a questo articolo sono divisivi: da un lato la reazione è stata quella di accusare Murgia di voler distruggere l’italiano, stravolgendo o storpiando la nostra lingua nazionale. C’è anche chi la accusa di iniziare battaglie futili solo per far parlare di sé.
Dall’altro lato c’è chi difende la scrittrice sostenendo che la necessità di una lingua più inclusiva esiste e deve essere trovata.
Il linguaggio è alla base della società, e ne è lo specchio. Dal punto di vista linguistico le lingue possono evolversi, non sono statiche. E se il mondo in cui viviamo è in continua evoluzione, è conseguente che anche i linguaggi si evolvano.