M., marchigiano 43enne, sta combattendo da oltre un anno una ‘guerra’ contro la legge italiana che potrebbe avere un esito epocale. A seguito di un incidente stradale, M. è tetraplegico da dieci anni e ha espresso la richiesta per il suicidio assistito.
Il quarantatreenne ha scelto, nel corso dell’estate 2020, di chiedere aiuto a Marco Cappato, attivista e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, per ottenere il suicidio assistito in Svizzera, Paese dove l’eutanasia è consentita e che ha accolto la richiesta a settembre dello stesso anno.
Il caso Cappato/Dj Fabo: la sentenza della Corte Costituzionale
Cappato è passato agli onori della cronaca nel 2017, quando accompagnò Dj Fabo – nome d’arte di Fabiano Antoniani – divenuto tetraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale, in Svizzera, dove aveva ottenuto il consenso per l’eutanasia in una clinica privata. Per questo, il tesoriere fu accusato – in base all’articolo 580 del codice penale – di avere aiutato il Dj a suicidarsi.
Il punto di svolta avvenne il 25 settembre del 2019, quando la Corte Costituzionale depositò la sentenza 249/19, la quale ritiene non punibile – a determinate condizioni – l’assistenza al suicidio. Inoltre, la Corte conferma che la pratica di assistenza al suicidio non è equiparabile all’istigazione al suicidio – equiparazione che invece l’articolo 580 c.p. fa – ritenendo quindi Cappato innocente.
Le condizioni della Corte Costituzionale
Le determinate condizioni che, secondo la Corte Costituzionale, fanno sì che questa pratica sia non punibile sono quattro:
- La patologia in questione deve essere irreversibile;
- La patologia sia fonte di sofferenze intollerabili;
- Se al malato vengano somministrati trattamenti vitali;
- Se il malato è capace di autodeterminarsi con decisioni libere e consapevoli.
La sentenza non interviene direttamente sul diritto al suicidio assistito, ma su chi sceglie di aiutare coloro che hanno deciso di morire. Indirettamente, però, la sentenza ammette la pratica in condizioni molto circoscritte, chiamando in causa il Servizio sanitario nazionale – delegando alle strutture sanitarie pubbliche la verifica delle condizioni in cui è ammesso il suicidio assistito.
La battaglia di M.
Proprio da questa sentenza è iniziata la battaglia di M. per la legalizzazione del suicidio assistito in Italia. Il cittadino marchigiano ha infatti rifiutato la Svizzera, decidendo di voler morire a casa sua, senza dover scappare.
Avvalendosi della sentenza, ad agosto 2020 – quindi prima dell’assenso svizzero – M. ha chiesto, ed è stato il primo in Italia a farlo, all’azienda sanitaria di competenza – in questo caso l’Asur Marche – di disporre le visite mediche al fine di verificare i requisiti precedentemente indicati, al fine di procedere legalmente al suicido assistito nel suo Paese.
I primi sviluppi
Negata inizialmente la richiesta, M., ha fatto ricorso, dando inizio ad oltre un anno di scontri nelle aule di giustizia – tra carte bollate e sentenze non applicate – fino ad arrivare a settembre 2021, quando l’Asur Marche è stata obbligata a disporre le visite richieste – svolte poi nello stesso mese.
Il 14 ottobre, un mese e mezzo dopo, M. non ha ricevuto alcuna risposta dall’Asur e, a seguito di sollecitazioni fatte, l’azienda sanitaria ha incolpato il Cerm, Comitato Etico regionale Marche, che ancora non ha emesso verdetto.
La situazione attuale
Al 12 novembre l’Asur ha comunicato di essere ancora in attesa del parere del Cerm. A seguito di questo ulteriore ritardo, l’Associazione Luca Coscioni ha informato che “In difetto di immediato e documentato adempimento dell’ordine del Giudice, saranno assunte tutte le tutele giudiziali ed istituzionali del caso”.
M., quindi, è ancora in attesa della risposta da parte del Comitato etico regionale per verificare la possibilità di procedere al suicidio assistito – un anno e tre mesi dopo l’iniziale richiesta – quando dalla Svizzera la risposta è arrivata dopo un solo mese. Il quarantatreenne ha dichiarato al Corriere della sera: “Che mi dicano se posso accedere oppure no al farmaco letale e però se dicono di no devono dirmi anche perché”.
[Leggi anche: Referendum Eutanasia: perché è importante continuare a firmare]