Casa Felicia può tornare alla mafia per un errore giudiziario: tentato il ricorso

Peppino Impastato, giornalista e conduttore radiofonico di Cinisi, in provincia di Palermo, fu assassinato da Cosa Nostra nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978. La madre Felicia e il fratello Giovanni non si sono mai arresi, lottando per ottenere giustizia. Tra il 2001 e il 2002, sono stati arrestati e condannati Vito Palazzolo, autore del delitto, e Gaetano Badalamenti, mandante dell’omicidio. In seguito, uno dei casolari confiscati a Don Tano Badalamenti venne affidato, nel 2021, proprio all’Associazione ‘Casa memoria Felicia e Peppino Impastato‘, gestita da Giovanni. Diventata un simbolo della lotta alla mafia e frequentata spesso da giovani della zona, ora ‘Casa Felicia’ è in pericolo.

Chi era Peppino Impastato: il giornalista che derideva la mafia

Nato a Cinisi nel 1948, Giuseppe Impastato, detto Peppino, apparteneva ad una famiglia collegata con la mafia. Basti pensare che lo zio, cognato del padre Luigi, era il capomafia del paese. Il padre stesso fu spedito al confino, durante il periodo fascista, per i suoi legami mafiosi.

Per questo motivo, Peppino decise presto di rompere i legami con la propria famiglia. Cacciato di casa, avviò un’attività politico-culturale di sinistra con un forte stampo antimafia. Denunciò spesso la criminalità organizzata, facendo nomi e cognomi, per poi deridere pubblicamente mafiosi e politici nel suo programma radiofonico più seguito, ‘Onda pazza a Mafiopoli‘.

Tra i soggetti presi di mira dal giornalista spiccava il nome di Gaetano Badalamenti – rinominato sarcasticamente ‘Tano Seduto‘ – che nel frattempo aveva sostituito proprio lo zio di Peppino come capomafia locale.

Nonostante le minacce e intimidazioni nei suoi confronti, Giuseppe decise di candidarsi alle elezioni comunali nella lista Democrazia Proletaria. Assassinato prima del risultato delle votazioni, il suo cadavere venne utilizzato per inscenare un attentato. Il corpo, adagiato su un binario della ferrovia, fu posizionato sopra ad una carica di tritolo.

L’omicidio passò ben presto in secondo piano, per via del ritrovamento del presidente della DC Aldo Moro appena una decina di ore più tardi. Peppino fu votato comunque simbolicamente ed ottenne addirittura il maggior numero di preferenze, ben 199.

Nonostante la magistratura e le forze dell’ordine sostennero prima l’ipotesi dell’attentato e poi quella del suicidio, la madre e il fratello di Giuseppe non credettero mai a tali ipotesi. Per tutta risposta, sulla tomba del giornalista venne inciso il polemico epitaffio: ‘Rivoluzionario e militante comunista – Assassinato dalla mafia democristiana‘.

Grazie all’attività di Felicia e Giovanni, venne finalmente identificata la matrice mafiosa dell’omicidio, ma il Tribunale di Palermo archiviò il caso nel 1992, confermando tale matrice, ma escludendo la possibilità di individuare i colpevoli. In seguito, sfruttando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, furono catturati i responsabili del delitto Gaetano Badalamenti e Vito Palazzolo, condannati rispettivamente all’ergastolo e a trent’anni di carcere.

Nel 1998, venne istituito un comitato sul caso dalla Commissione parlamentare antimafia. Venne resa nota la responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini, con particolare riferimento ai militari dell’Arma dei Carabinieri: il maggiore Antonio Subranni e il maresciallo Alfonso Travali.

Peppino indagò pure sulla c.d. strage di Alcamo Marina, nella quale vennero torturati in cella cinque giovani accusati di aver ucciso due Carabinieri. È probabile che il massacro fosse collegato all’Organizzazione Gladio – mafiosa e collusa con gli stessi membri dell’Arma. Sfortunatamente, i documenti e le prove raccolte da Peppino furono sequestrati dagli stessi Carabinieri nella casa della madre Felicia poco dopo la morte del figlio e mai più restituiti.

La situazione di Casa Felicia: l’errore burocratico

Per via di una sentenza della Corte di Assise di Palermo e di un provvedimento di revoca della confisca emanato dall’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, i discendenti dei Badalamenti hanno richiesto la restituzione del casolare.

Leonardo, figlio di Don Tano, ha fatto ricorso per la restituzione dell’edificio, forte dell’errore burocratico nell’individuazione delle particelle catastali che avrebbe causato l’affidamento di un bene non assegnabile, poiché appartenente all’eredità lasciata dalla sorella.

Anche il Comune e le Cgil di Palermo, quella siciliana e quella nazionale hanno presentato un ricorso per contrastare la decisione favorevole al figlio del boss – su cui pende un mandato di cattura internazionale dal 2017. L’unica speranza rimasta è quella di fare perno sulla legge 46, che prevede esclusivamente un risarcimento nel caso di errori burocratici dello stesso tipo. Per ora, il provvedimento giudiziario che prevedeva la restituzione del casolare alla famiglia mafiosa già in data 29 aprile è sospeso.

Ha dichiarato Giovanni Impastato:

Se l’istanza avrà esito positivo occorrerà corrispondere a Leonardo Badalamenti il valore del rudere prima del restauro. Un po’ paradossale, ma questo posso accettarlo. Che gli torni il bene proprio no. Sarebbe una sconfitta delle istituzioni e del movimento antimafia. Aspettiamo la sentenza e siamo fiduciosi.

Si rimarrà dunque con il fiato sospeso fino alla decisione dei giudici. Speranzosi che un luogo-simbolo per la legalità – soprattutto per i giovani e su cui sono stati investiti 400mila euro di fondi pubblici – resti a chi combatte e sfida coraggiosamente, ogni giorno, la mafia.